L'IMMAGINE DI ALESSANDRO MAGNO TRA REALTÀ e idealizzazione

(ARTICOLO DI PAOLO MONDOLA)

Non possiamo conoscere con precisione i lineamenti del Macedone: le sue spoglie, purtroppo, non sono mai state rinvenute e, come già ricordato, le fonti non sono di grande aiuto per ricostruire il suo aspetto. I ritratti di Alessandro, tuttavia, anche se stereotipati, potrebbero darci un’idea almeno dei tratti tipici del sovrano. Alessandro promosse la sua immagine ufficiale, costruita a corte, che doveva rappresentare un insieme di valori ed emozioni ben percettibili dai suoi sudditi: un volto pubblico “reale” che doveva richiamare divinità ed eroi.

Plutarco ha perfettamente colto questo aspetto della propaganda di Alessandro legata alla diffusione di una determinata rappresentazione di sé; infatti proprio all’inizio della sua Vita di Alessandro scrive:

 

Come dunque i pittori colgono le somiglianze dei soggetti dal volto e dall’espressione degli occhi, nei quali si nota il carattere, e pochissimo si curano delle altre parti, così mi si conceda di interessarmi di più di quelli che sono i segni dell’anima, e mediante ad essi rappresentare la vita di ciascuno, lasciando ad altri la trattazione delle grandi contese[1].

Il nuovo linguaggio artistico doveva presentarlo come divino e coraggioso, ma anche più umano e carismatico degli dei o eroi a cui il re si ispirava. Lisippo fu certamente lo scultore preferito di Alessandro, lo raffigurò fin dalla sua adolescenza e seguì il sovrano nella spedizione in Asia. Vi fu, però, anche un altro scultore favorito, di cui le fonti registrano ritratti del re: Leocare, artista di formazione ateniese. Lo scultore Leocare aveva già lavorato per Filippo II, realizzando immagini d’oro e d’avorio della famiglia reale. Si trattava di sculture realizzate per il Philippeion di Olimpia, un sontuoso edificio dedicato a Zeus dopo la vittoria di Cheronea nel 338 (Fig. 4). Sopra una a di tre gradini, l’edificio consisteva di una cella a pianta circolare, costruita in opera quadrata isodomica con blocchi di poros, circondata da una peristasi di 18 colonne di ordine ionico, sempre in poros, rivestito di stucco, ad eccezione della sima, che era in marmo e decorata da un anthemion dipinto.

 

 

Fig. 4 – Philippeion, Olimpia (338-336 a.C.).

La thòlos conteneva le statue criselefantine della famiglia di Filippo, posizionate su un basamento ricurvo all’interno della cella, ed era l’unica struttura del santuario dedicato ad un essere umano. Anche la scelta di utilizzare marmo e oro per le sculture, poneva a diretto confronto la famiglia reale macedone con la statua criselefantina di Zeus, realizzato da Fidia per il santuario di Olimpia. Nessuna di queste sculture è sopravvissuta, ma delle testine in avorio che decoravano una kline in una delle tombe reali di Verghina, potrebbero essere delle copie miniaturizzate (Fig. 5).

Fig. 5 – Testine in avorio, Verghina, Museo delle Tombe Reali di Aigai (seconda metà del IV sec. a.C.)

Un’altra scultura che fu realizzata da Leocare, o da Eufranone secondo altri studiosi, è il cosiddetto Alessandro Rondanini. Si tratta di un’antica copia di un originale, appartenente a un gruppo scultoreo che raffigurava re Filippo di Macedonia sul suo carro portato da 4 cavalli e suo figlio Alessandro che conduceva il carro, tenendo le redini con entrambe le mani (Fig. 6). Le proporzioni, l’atteggiamento e la chioma del Rondanini di Monaco fecero da archetipo per le figure funerarie della ceramica apula coeva alla scultura (Fig. 7). Sempre dal tipo Rondanini deriva una cospicua monetazione di Lisimaco, dove la testa di Alessandro ha l’inclinazione del collo, il profilo e la capigliatura che si rifà alla scultura.

Fig. 6 – Alessandro Rondanini, marmo, copia dell’età dei Flavi,

da originale del 337 a.C., Gliptoteca di Monaco.

Fig. 7 – Statua del defunto quale guerriero nel tipo dell’Alessandro Rondanini, cratere apulo, terracotta, Pittore di Ganimede, 335 a.C., Antikenmuseum, Cortesia Basilea.

Vi sono anche due mosaici rinvenuti a Pella che raffigurano Alessandro adolescente, nel pieno del suo vigore e in scene di caccia. Il mosaico della Caccia al Leone è stato rinvenuto nella cosiddetta “Casa del Dioniso” (Fig. 8). La dimora, la cui fase più antica si data al IV sec. a.C., si trova in un quartiere adiacente all’agorà della città, dove è stato rinvenuto l’altra opera musiva, la Caccia al Cervo. Si tratta di mosaici realizzati con ciottoli naturali, rotondeggianti, la cui gamma cromatica tende dal bianco all’azzurro scuro. Il mosaico della Caccia al Leone fu rinvenuto in un andron della casa, la sala da banchetto usati dagli uomini per la pratica del simposio ed oggi si trova al Museo Archeologico di Pella. Fu scoperto nel 1957 e ha un’estensione di 4,90 x 3,20 metri.

Fig. 8 – Mosaico con caccia. Mosaico; Pella, Casa di Dioniso, Museo Archeologico di Pella (fine del IV sec. a.C.).

Le figure poggiano i piedi su una superfice rocciosa. Al centro un leone attacca un giovane cacciatore che si difende con una lancia, e alle spalle dell’animale, che si gira la testa indietro, un altro giovane che lo attacca con la spada. I due cacciatori sono nudi ad eccezione del mantello e uno dei due indossa un grande cappello, forse un petaso. Il mosaico potrebbe rappresentare Alessandro e Cratero o Alessandro e Efestione. Nella prima interpretazione si tratterebbe della raffigurazione di un episodio della vita di Alessandro che si verificò a Susa, quando in una battuta di caccia, Cratero gli salvò la vita mentre era assaltato da un leone. Tuttavia, siccome si tratta di un’iconografia ricorrente nell’arte, la scena avrebbe solo un valore metaforico: enfatizza il carattere eroico dei personaggi, simbolicamente nudi, che cacciano il leone, animale re della foresta e simbolo della forza e del coraggio. La caccia era ritenuta un’attività aristocratica, preparatoria e di addestramento alla guerra.  L’iconografia potrebbe indicare, inoltre, anche un rito di passaggio dall’efebia all’età adulta. 

Nel mosaico della Caccia al Cervo la disposizione delle figure, con i cacciatori sui due lati della preda, le armi levate, e l’attenzione dell’animale (in questo caso lo sguardo) rivolta all’uomo alla destra dell’osservatore (cioè Alessandro), richiama l’altro mosaico (Fig. 9). Il cacciatore posizionato a destra del cervo, armato di spada, è ritenuto essere Alessandro; quello di sinistra, armato di scure bipenne, arma tradizionalmente legata al dio greco Efesto, è identificato nel generale macedone Efestione, miglior amico di Alessandro.

Secondo Paolo Moreno, insigne studioso che si è occupato in modo particolare delle rappresentazioni di Alessandro, il mosaico potrebbe essere una copia di un dipinto di Melanzio, pittore apprezzato anche da Apelle per la sua capacità di rappresentare realisticamente la disposizione armonica delle figure nello spazio geometrico[2].

Fig. 9 – Mosaico con Caccia al cervo. Mosaico; Pella, Case a peristilio,

Museo Archeologico di Pella (fine del IV sec. a.C.).

Il tema della caccia reale è raffigurato anche nel famosissimo fregio della tomba II a Verghina, rinvenuta dall’archeologo greco Manolis Andronikos tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta sotto il cosiddetto Grande Tumulo. Il monumento si trova all’estremità sud occidentale della grande necropoli di tumuli di Verghina, presenta un diametro di oltre 100 metri per circa 12 di altezza ed ha, oltre la tomba II, altre tre tombe di carattere regale. La tomba II, costituita da una camera di notevoli dimensioni, è preceduta da un vestibolo al quale si accede tramite una monumentale porta a due battenti, inquadrata da due colonne doriche sormontate da un fregio dorico; lo spazio sovrastante è dipinto con una scena di caccia. Il fregio continuo è alto 1,16 metri e lungo 5,56 metri. La tomba, rinvenuta intatta, ha restituito un sontuoso corredo, ricco di armi da parata, di vasellame d’argento e di bronzo, di elementi decorativi d’avorio pertinenti a mobili lignei, tra cui probabilmente una kline; all’interno di un sarcofago in marmo una larnax, un’elegantissima cassetta in oro con il coperchio decorato dalla stella macedone a dodici raggi, conteneva  le ossa del defunto, avvolte in un tessuto di porpora e accompagnate da una splendida corona d’oro di foglie e bacche di quercia. Secondo Andronikos, il defunto della tomba sarebbe Filippo II, ma quest’identificazione è stata messa in discussione in quanto non ci sono ancora prove archeologiche certe[3].

La pittura, forse realizzata da Nicia, raffigura una scena di caccia multipla ai cervi, al cinghiale, al leone e all’orso (Fig. 10).

Fig. 10 – Dipinto della caccia, fregio della cosiddetta tomba di Filippo II, Verghina (seconda metà del IV sec. a.C.).

La caccia è condotta da diversi personaggi a piedi e tre a cavallo con l’aiuto di numerosi cani. Dei tre cavalieri impiegati nella caccia al leone, due sono stati identificati come Alessandro Magno e suo padre Filippo II. Alessandro indossa un chitone color porpora, colore della regalità e sta scagliando la lancia; Filippo II indossa la leontea ed è intento a colpire il leone. Le diverse prede forse rimandano ai differenti gradi di difficoltà della caccia, attività con alto valore simbolico nella monarchia macedone.

 La leontea nasce come attributo iconografico di Eracle e nella mitologia greca raffigura il trofeo della sua prima fatica. L’eroe, dopo aver sconfitto il leone nemeo, lo scuoiò e, a ricordo e testimonianza dell’uccisione nella prima di una lunga serie di prove, ne vestì la pelle. La dinastia argeade vantava tra le proprie ascendenze il divo Eracle e lo stesso Alessandro in altre rappresentazioni è raffigurato con la pelle dell’animale. Era un’immagine diffusa per fini propagandistici e che legittimava anche la sua discendenza dal personaggio mitico.

Un cratere apulo a figure rosse, oggi conservato al Metropolitan Museum of Art di New York, raffigura un bronzista che rifinisce la criniera del leone della scultura su un alto basamento (Fig. 11). La scultura con la clava, l’arco e la pelle di leone, è stata più volte identificata semplicemente come Eracle; in realtà, a un’osservazione più attenta, si nota che i tratti del volto della stessa non sono idealizzati, ma si riferiscono ad Alessandro, riconoscibile dalla capigliatura folta, con scriminatura nel mezzo e con lunghe ciocche ondulate e basette ricciolute che hanno poco a che fare con l’iconografia di Eracle.

Alessandro viene quindi rappresentato come l’eroe che sconfigge il leone, appropriandosi della sua forza e del suo coraggio, per rimarcare il suo eroismo. Coraggio che era trasmesso dal leone all’eroe che indossava la sua pelle, simbolo dell’unione dell’identità dell’uomo e dell’animale. Eracle, inoltre, era anche un eroe civilizzatore, simbolo della lotta contro la barbarie e il caos.

Fig. 11 – Artista al lavoro presso una statua di Alessandro Eracle. Cratere apulo, terracotta, Gruppo di Boston, 338 a.C. Metropolitan Museum of Art di New York.

Tutta la produzione scultorea realizzata da Lisippo per Alessandro è oggi persa. Gli studiosi hanno riconosciuto lo stile dello scultore in diverse copie di epoca successiva: una testa di marmo, copia di epoca romana, detta tipo Dresda, che raffigura Alessandro giovane (Fig. 12); due tipi di testa di marmo conosciuti come Alessandro Schwarzenberg (Fig. 13); i tipi dell’erma di Azara (Fig. 14); tre statuette di bronzo che raffigurano Alessandro maturo armato di lancia (Fig. 15).  

Le teste tipo Dresda e Alessandro Schwarzenberg condividono la stessa struttura verticale e hanno una bocca tesa, quasi imbronciata, zigomi alti, occhi con espressione attenta, fronte alta e voluminosa, capelli lunghi con un ciuffo in mezzo, l’anastolé. Lisippo fu in grado di idealizzare la fisionomia di Alessandro con un’acconciatura di capelli simile a quella dei ritratti di Zeus, limitandosi, però, allo stesso tempo, a non valicare esplicitamente il confine tra umano e divino.

Fig. 12 – Alessandro tipo Dresda. Marmo; copia romana di una scultura di Lisippo, 325-300 a.C., Staatliche Kunstsammlungen, Dresda.                                                                                                   

Fig. 13 – Alessandro Schwarzenberg. Marmo; copia romana del II secolo d.C. di un ritratto del 325 a.C., Gliptoteca di Monaco.                                                                                                                                                       

L’erma di Azara e la tipologia dei ritratti simili di Alessandro prendono il nome dal diplomatico spagnolo José Nicolás de Azara (1730-1804) che, durante la sua carica di ambasciatore a Roma, finanziò lo scavo archeologico di una villa a Tivoli. L’erma fu ritrovata nel 1779 tra una serie di antichi ritratti scultorei di personaggi famosi. Successivamente, quando divenne ambasciatore in Francia, Azara la regalò a Napoleone che a sua volta la donò al Louvre nel 1803. Le labbra, il naso, le sopracciglia e la parte inferiore del busto dell’erma sono stati restaurati, ma a differenza di molte altre sculture identiche rinvenute in Italia, questa copia non è stata restaurata eccessivamente.

Si tratta della prima scultura identificabile come ritratto di Alessandro Magno scoperta in epoca moderna, particolarmente significativa per l’iscrizione sul fronte dell’erma:

AΛEΞANΔPOΣ                               Alessandro

ΦIΛIΠΠOY                                      figlio di Filippo

FAREΔ                                             Maced[oniano]

Fig. 14 – L’erma di Azara. Marmo; copia romana del I secolo d. C., Tivoli, Museo del Louvre, Parigi.

La statuetta di Alessandro Nelidow presenta modellazione, proporzioni e ponderazione di epoca tardo classica. Si tratta, quasi sicuramente, di una copia di una scultura lisippea in cui Alessandro era raffigurato nudo e doveva reggere una lancia o uno scettro. Questo tipo di posa fu copiata successivamente numerosissime volte dai sovrani ellenistici e dagli imperatori romani, che la ritenevano paradigma del principe guerriero forte e carismatico: Alessandro è snello e atletico, e avanza con forza e vigore in avanti in un’andatura che il mondo antico definirebbe “andatura leonina”. Lo scettro era un bastone regale simbolo di autorità sovrana dei re, mentre la lancia rappresentava l’arma simbolo degli eroi omerici. Alessandro, dopo aver attraversato l’Ellesponto nel 334 col suo esercito, gettò simbolicamente la sua lancia dalla nave sulla riva della spiaggia, dichiarando di aver conquistato la terra; era l’arma preferita di Achille, a cui Alessandro s’ispirò e di cui si credeva discendente per parte di madre. L’iconografia di Alessandro con la lancia presentava il sovrano come nuovo Achille, il più forte e valoroso guerriero degli Achei, ed erede della più alta virtù degli eroi omerici: l’aretè, ossia l’eccellenza.

Fig. 15 – Alessandro Nelidow. Bronzo; copia ellenistica o romana di un ritratto del 325 a.C. ca., Cambridge.                                   

Un altro importante documento archeologico che rappresenta Alessandro è la stele di Pancare, opera che lo raffigura in uno scontro durante la battaglia di Cheronea del 338 (Fig. 16). La stele di marmo, oltre a celebrare la vittoria macedone contro gli Ateniesi, Beoti e altre poleis minori, è un memoriale ai caduti, fra cui si riconosce il nome di Pancare. Il rilievo è oggi conservato nel Museo Archeologico del Pireo.

Secondo l’ipotesi di Paolo Moreno, Pancare, figlio di Leocare (come riporta l’iscrizione), morì eroicamente in battaglia, combattendo con altri trecento soldati del famoso battaglione sacro di Tebe totalmente sterminato dai Macedoni[4]. Il monolite è alto ben tre metri e il Leocare menzionato nell’iscrizione potrebbe essere il famoso scultore che realizzò l’opera per il figlio.

Fig. 16 – Stele di Pancare. Marmo; altorilievo, Museo Archeologico del Pireo, Atene (338 a.C.).     

Nel rilievo è rappresentato Alessandro che, a cavallo di Bucefalo mentre impenna, travolge Pancare in nudità eroica. Le stele commemorativa ricorda il coraggio dei soldati tebani che decisero di restare sul campo di battaglia, anche se ben consapevoli della imminente sconfitta e della sicura morte.

Altra importante opera è un affresco di II stile rinvenuto in una villa romana di Boscoreale agli inizi del ‘900. L’ultimo proprietario della sontuosa dimora fu un certo Fannius Synister.

L’opera raffigura diversi personaggi di una corte regale e uno di essi ha la lancia e la kausia, ossia il tipico copricapo macedone di feltro simile a un coperchio più o meno convesso (Fig. 17 e 18). La maggior parte della pittura fu strappata e venduta all’asta a Parigi pochi anni dopo; solo alcuni affreschi rimasero a Napoli, custoditi oggi nel suo Museo Archeologico Nazionale. Fino a qualche anno fa gli studiosi non riuscivano ad interpretare in modo unitario le megalografie dell’affresco.

Fig. 17 – Affresco di II stile. Boscoreale, Museo Archeologico Nazionale di Napoli (60 a.C. ca.).

Fig. 18 – Affresco di II stile. Boscoreale, Museo Archeologico Nazionale di Napoli (60 a.C. ca.).

Solo recentemente si è capito con certezza che l’affresco rappresenta una corte macedone. Ciò è confermato dalla presenza degli scudi con l’astro a rilievo, dagli abiti dei personaggi e dalle caratteristiche architettoniche degli edifici. Le scoperte archeologiche nella regione macedone degli ultimi decenni confermano tale tesi.

La figura con kausia, diadema, lancia e scudo macedone è generalmente ritenuta la personificazione della monarchia di Macedonia (Fig. 19). Il personaggio domina uno stretto di mare, un chiaro riferimento allo stretto dei Dardanelli, confine tra la sponda del continente europeo e quello asiatico, e la punta della lancia è conficcata sul lato asiatico, allusione alla conquista dell’Asia; il continente è rappresentato da una donna seduta con vesti orientali, che si regge il capo con la mano destra e guarda verso il conquistatore che domina i due continenti. Secondo una recentissima ipotesi avanzata da Filippo Coarelli e Eugenio Lo Sardo, il personaggio con la lancia rappresenterebbe, invece, Alessandro[5]. I segni che inducono a questa identificazione sono le caratteristiche fisionomiche del volto simili a quelle del grande mosaico di Pompei e la tunica di foggia asiatica. Alessandro era solito indossare, infatti, le vesti tipiche dei popoli conquistati.  

Fig. 19 – Affresco di II stile. Ritratto di Alessandro Magno? Boscoreale, Museo Archeologico Nazionale di Napoli (60 a.C. ca.).

È più difficile, invece, valutare le pitture di Apelle per Alessandro, in quanto sopravvivono poche copie. Plinio il Vecchio elogia la raffinatezza delle sue figure   e parla di una tavolozza di soli quattro colori utilizzati dal grande artista: bianco, giallo, rosso e nero; l’artista possedeva una tecnica meticolosa e aveva una particolare maestria nel rappresentare la lucentezza degli scintillii del fuoco e dell’oro[6]. Divenne famosa un’apoteosi dipinta da Apelle a Efeso che raffigurava Alessandro con la lancia, attributo che divenne tipico della sua iconografia in numerose copie.

Una copia di questo quadro si trova nella casa dei Vettii, a Pompei. L’affresco raffigura Alessandro seduto sul trono con la lancia nella mano destra e con un mantello purpureo (colore associato al potere) poggiato sulle gambe; con la mano sinistra impugna le folgori, attributo divino di Zeus che divinizza il sovrano e ne risalta la sua regalità; lo sguardo è diretto verso l’alto, ha la testa leggermente inclinata ed è cinta da una corona di quercia (Fig. 20).

Fig. 20 – Alessandro come Zeus, affresco (da un dipinto di Apelle), I secolo d.C., Casa dei Vettii, Pompei.

Il dipinto di Apelle fu esposto nel tempio di Artemide e la lancia fu consacrata da Alessandro e dedicata alla dea. La divinizzazione di Alessandro ad opera del pittore si spinse oltre le rappresentazioni più moderate e mascherate di Lisippo, presentando un umano come un vero e proprio dio in terra.

L’iconografia della lancia venne ripetuta in altre rappresentazioni, come il famoso dipinto del matrimonio di Alessandro e Statira, figlia del re Dario. L’opera fu dipinta da Ezione, che secondo le fonti realizzò anche le nozze di Alessandro e Rossane, ed è conosciuta grazie a una copia sotto forma di affresco rinvenuta nella casa del Bracciale a Pompei (Fig. 21).

Fig. 21 – Nozze di Alessandro e Statira. Affresco; Casa del Bracciale d’oro, I sec. d.C., Pompei.

Le nozze furono celebrate nella primavera del 324 a Susa. Nell’opera Alessandro nella mano destra impugna la lancia con la punta verso il basso, enfatizzazione della fine della guerra e poggia l’altra sull’elsa della spada riposta nel balteo, gesto di pacificazione e unione tra le componenti greche e iraniche; la regina gli è di fronte e mantiene uno scettro; un cupido, dopo aver deposto l’elmo a terra, le porge lo scudo.

In passato si pensava che rappresentasse le nozze con Rossane, ma la presenza di un guerriero vestito all’orientale, appartenente al corpo dei melophóroi, guardie dei sovrani Achemenidi, lo esclude: esso fu ricostituito da Alessandro non prima del 324, mentre il matrimonio con Rossane è antecedente e risale al 327. La figura di Alessandro segue la formula compositiva policletea, il chiasmo, nella quale tramite la disposizione incrociata degli arti (alla gamba flessa corrisponde il braccio opposto flesso e alla gamba tesa corrisponde il braccio opposto teso), viene risolto il problema dell’equilibrio della figura stante.

Queste numerose opere, frutto degli alti risultati tecnici raggiunti dagli artisti scelti dal sovrano, costruirono una potente immagine pubblica di Alessandro in tutto l’impero.

Altra iconografia tipica è la figura del Macedone a cavallo del suo inseparabile Bucefalo. Alessandro incontrò il suo cavallo quando era ancora adolescente. Inizialmente Bucefalo fu portato in Macedonia e presentato al re Filippo II nel 346 da Filonico di Tessaglia. Con un prezzo quasi triplo rispetto alla norma (13 talenti), il bellissimo cavallo nero era più alto del consueto destriero macedone, ma era considerato troppo selvaggio e ingestibile e si ribellava a chiunque gli si avvicinasse. Alessandro, colpito dalla sua bellezza, aveva capito qualcosa che gli altri non avevano capito: il cavallo aveva paura della sua stessa ombra. Facendo girare Bucefalo verso il sole in modo che la sua ombra fosse alle sue spalle e prendendo lentamente le redini in mano, Alessandro riuscì a cavalcarlo. Da allora Bucefalo e Alessandro divennero inseparabili; solo Alessandro poteva cavalcarlo, e infatti lo fece, in ogni battaglia, dalla conquista di Tebe fino alla battaglia di Gaugamela e all’India. Dopo la sconfitta finale di Dario III, Bucefalo fu rapito mentre Alessandro era in viaggio. Quando ritornò e venne a conoscenza del furto, il re promise di abbattere ogni albero, di mettere a ferro e fuoco la campagna e di massacrare ogni abitante della regione. Il cavallo fu presto restituito insieme a una richiesta di pietà. Bucefalo morì durante la campagna militare in India, probabilmente a causa delle ferite riportate in battaglia. Qui, sulla sponda destra del fiume Idaspe, Alessandro gli dedicò la fondazione di una città: Alessandria Bucefala, individuabile dove oggi si trova il centro abitato di Jalalpur nel Punjab.

La cavalleria pesante degli hetaroi (termine che in greco vuol dire compagni), formata dagli aristocratici macedoni, venne istituita da Filippo II e divenne uno dei punti di forza dell’esercito macedone. Questi cavalieri, armati di una lunga lancia in legno di corniolo, lo xiston, e privi di scudo o schinieri, scompaginavano la fanteria nemica, facendosi largo nella mischia per il corpo a corpo con la spada.

Lo schema di Alessandro a cavallo raffigurato nelle scene di battaglia deriva dal “Dexileosmotiv”. Questo rilievo costituisce il modello compositivo delle rappresentazioni di un’ampia serie di monumenti appartenenti all’ambito funerario, votivo e onorario[7]. Anche se l’immagine del cavaliere vincitore sul cavallo rampante che trafigge con il giavellotto il nemico caduto a terra trova attestazioni già nel VI secolo a.C., è tuttavia verso la metà del V secolo a.C. che appare il tipo canonico, ampiamente ripreso nei fregi e nelle metope templari, oltre che nella coeva pittura.

Nell’ambito delle numerose testimonianze della seconda metà del V e del IV secolo a.C. il motivo appare peculiare di una specifica classe di monumenti funerari, quali steli, loutrophoroi e lekythoi marmoree. In particolare la sua presenza nei rilievi sepolcrali statali precede l’adozione del motivo nei monumenti privati, che enfatizzano l’eroicizzazione del defunto.

La stele dell’Heroon di Dexileos è una delle opere più importanti di questo genere. Il monumento, datato grazie alla sua iscrizione al 394 a.C., presenta importanti motivi innovatori anche nello schema compositivo (Fig. 22).

Fig. 22 – Altorilievo della stele dell’Heroon di Dexileos. Marmo pentelico; dalla necropoli del Dipylon, Ceramico di Atene; Museo Archeologico Nazionale di Atene (394 a.C.).

L’impiego del “Dexileosmotiv” ha una lunga fortuna che, grazie proprio alle formulazioni lisippee riproducenti il Macedone in scene di battaglia e di caccia, ne amplifica la diffusione, ponendo in evidenza ancora una volta il significato più profondo del motivo, quello eroico.

 L’ampia diffusione di questo tema nell’iconografia romana di età repubblicana si deve alla ripresa del modello di Alessandro da parte dei generali trionfatori e alla presenza delle sculture originali di Lisippo a Roma. Qui, le opere più ammirate dello scultore erano il gruppo del Granico e la statua equestre di Alessandro loricato, portate rispettivamente da Quinto Cecilio Metello Macedonico e da Giulio Cesare. La statua equestre fu esposta dinanzi al Tempio di Venere Genitrice e Cesare fece sostituire alla testa di Alessandro il suo ritratto: questa circostanza ha rappresentato un momento determinante dell’imitatio Alexandri nell’ideologia repubblicana e imperiale.

I gruppi equestri ebbero una valenza politica e autorappresentativa superiore alla media e in molti casi, pur rimanendo nell’ambito del motivo del cavallo rampante, non riprodussero l’atteggiamento proprio dello schema di battaglia.

Il motivo iconografico di Alessandro a cavallo di Bucefalo ebbe molta fortuna nell’arte, ma nulla è arrivato ai nostri giorni delle sculture originali. Possiamo solo avere un’idea, un riflesso attraverso delle copie come la metopa con scena di combattimento di Alessandro proveniente da un celebre heroon di Taranto (Fig. 23);

Fig. 23 – Metopa con scena di combattimento di Alessandro a cavallo di Bucefalo. Marmo; da una tomba a camera di via Umbria, Taranto; Museo Archeologico Nazionale di Taranto (fine del III – inizi del II sec. a.C.).

Altro importante documento archeologico è una statuetta equestre in bronzo di Alessandro, ritrovata ad Herculaneum ed oggi conservata al Museo Archeologico di Napoli (Fig. 24).

Fig. 24 – Alessandro a cavallo di Bucefalo. Bronzo, Herculaneum, Museo Archeologico Nazionale di Napoli (I sec. a.C. – I sec. d.C.).

Si tratta di una copia di epoca romana che, secondo una parte della critica, si è ispirata alla statua equestre di Alessandro del gruppo del Granico[8]. L’opera lisippea ebbe particolare fama e divenne un modello di regalità, eroicità e riferimento per tutti gli imperatori romani che si ispirarono ad Alessandro. Il motivo di tanta fortuna era il carattere nuovo che il mito dell’eroe acquisì con Alessandro e che ben si conciliava con il pragmatismo romano. In Alessandro i Romani vedevano un eroe che vinceva le sue battaglie e rimaneva vivo. La sua sublimazione non si realizzava con la morte, ma da come egli viveva la sua dimensione terrena di predestinato per via di quelli che Plutarco chiama i segni dell’anima, che rendevano inevitabile i trionfi e la gloria che questi portavano con sé.

Nel bronzo Alessandro Magno è in sella al suo cavallo che si impenna, armato probabilmente di lancia che punta contro il nemico, indossa una corazza e una clamide che ricade dietro la schiena. Il condottiero si volta poi alla sua destra tenendosi saldo in sella con le gambe e la mano sinistra, e sembra essere un tutt’uno col suo cavallo. È un’iconografia molto potente, frutto dell’ingegno del sovrano nella costruzione della sua immagine pubblica e dell’abilità tecnica dell’artista: lo slancio del cavallo dà un senso di sospensione e precarietà prima dell’impatto verso il suolo.

Alessandro, singolarmente, indossa il diadema, ornamento del capo a foggia di benda, simbolo di sovranità, ma non l’elmo. La raffigurazione di Alessandro senza elmo in battaglia divenne un modello iconografico, ripetuto successivamente in moltissime opere; durante la battaglia del Granico, Alessandro perse l’elmo e la sua assenza nella scultura potrebbe essere un esplicito riferimento a quest’episodio.

Riguardo la rappresentazione del diadema, vi sono delle controversie riguardo il suo effettivo utilizzo da parte di Alessandro nel 334. Secondo alcuni storici, il Macedone utilizzò il diadema regale solo dopo il 330, quando morì Dario[9]. Lo fece per presentarsi come un re persiano e per imitare la tradizione achemenide; nel bronzetto, quindi, il diadema sarebbe stato aggiunto dallo scultore in modo anacronistico.

Un diadema in argento e oro è stato rivenuto nell’anticamera della cosiddetta tomba II del Grande Tumulo di Verghina ed è uno dei suoi più preziosi reperti (Fig. 25). La tomba II è tutt’oggi oggetto di diatribe in merito all’identità del suo occupante principale, giacché l’attribuzione a Filippo II (e la consorte Cleopatra) sostenuta da subito con forza da Andronikos, fu messa in dubbio già nel 1980 poco tempo dopo la scoperta, da altri studiosi in favore di Filippo III ed Adea-Euridice.

Fig. 25 – Cosiddetto diadema di Filippo II. Argento e oro; 

tomba II di Verghina, Museo Archeologico Nazionale di Tessalonica (seconda metà del IV sec. a.C.).

L’oggetto è stato creato con la tecnica della fusione a cera persa. La successiva doratura è stata effettuata tramite l’utilizzo del calore che aiuta a favorire l’adesione delle lamine d’oro con i metalli sottostanti, solitamente costituiti da argento o rame.  Osservando il diadema, la caratteristica più notevole è il nodo di Eracle situato sul davanti che imita una fascia di stoffa. Il nodo ricorda che il re era un leader religioso e discendente diretto dell’eroe greco e di suo padre Zeus, re degli dei. Su ciascun lato del nodo di Eracle il metallo forma un motivo simile a un intreccio. Il diametro attuale è di 25 cm ed è stato realizzato per essere regolabile con le due estremità che si incastrano in una sezione più piccola nella parte posteriore. 

Il dibattito sull’origine del diadema di Alessandro rimane ancora irrisolto. Vi sono tre opinioni differenti degli studiosi sulla sua genesi: per alcuni si tratta di un’insegna tradizionale macedone; per altri è un’insegna di origine persiana; per altri ancora un simbolo che proviene da un’associazione con Dioniso.

Ernst Fredricksmeyer sostiene che il diadema non era un simbolo regale esclusivamente persiano ed era già conosciuto dai Macedoni come simbolo di Dioniso[10].

La sua ipotesi si basa innanzitutto sulle fonti letterarie. Plinio il Vecchio ricorda che il diadema e la processione trionfale furono inventati da Dioniso: diadema regium insigne et triumphum invenit [11]. E Diodoro conferma che «per scongiurare il mal di testa per il troppo vino [Dioniso] si legava la testa, riferiscono, con una fascia…, e fu questa fascia, dicono, che più tardi portò all’introduzione tra i re del diadema»[12]. Ci sono anche delle evidenze archeologiche dell’uso del diadema in Macedonia prima di Alessandro: si tratta di fasce che cingono le teste sulle monete di Alessandro I, Archelao, Aeropo II e Filippo II (Fig. 26).

Fig. 26 – Statere in argento con raffigurazione di Aeropo II (398-394 a.C.).

Secondo lo studioso, il diadema macedone prima di Alessandro potrebbe essere stato un simbolo onorifico e decorativo, forse anche con un significato religioso[13].

In ogni caso, è solo con Alessandro che il diadema si diffuse tra i Macedoni come un simbolo di dignità regia e di sovranità. Alessandro indossava la fascia intorno alla kausia color porpora, o in certe occasioni legato alla testa nuda[14].

Durante la spedizione, Alessandro si presentò come un nuovo Dioniso, il mitico conquistatore dell’Asia. Dioniso era il dio principale della zona dell’Egeo settentrionale ed era molto popolare anche in Macedonia, dove il suo culto si era da tempo consolidato. Il dio, inoltre, aveva un’importanza speciale per i re macedoni. La fondazione della dinastia argeade è legata a un segno del sole, interpretato come manifestazione di Dioniso-Helios. A tal proposito, Erodoto racconta:

Da Argo i tre fratelli, GauaneAeropo e Perdicca, discendenti di Temeno, ripararono esuli nel paese degli Illiri, e dall’Illiria per vie interne passarono nella Macedonia settentrionale, giungendo alla città di Lebea. Qui a pagamento prestarono la loro opera al re, l’uno governando i cavalli, l’altro i buoi, il terzo, Perdicca, il più giovane di loro, il bestiame minuto. Che i principi di Macedonia di cui si è parlato, discendenti di Perdicca, siano di razza greca, come del resto essi affermano, io sono perfettamente in grado di saperlo con precisione. «poiché anticamente anche i monarchi erano poveri e non solo i sudditi, la moglie del re preparava il pane con le proprie mani per i servi. Ebbene, quando veniva per cuocerlo, il pane destinato al giovane servitore Perdicca, raddoppiava in volume. Poiché questo fenomeno si ripeteva costantemente, la regina ne parlò al re, il quale sentendo dell’accaduto, pensò subito che si trattava di un prodigio, presagio di qualcosa di grande. Quindi, mandò a chiamare i servitori e gli ordinò di andarsene dal suo reame. Ma essi volevano il loro salario prima di andarsene, come sarebbe stato giusto. Allora il re, sentendo parlare di paga – mentre la luce del sole entrava nella stanza giù dal camino – accecato dagli dei esclamò: «Ecco la paga degna per voi», indicando il raggio del sole. Gauane e Aeropo, i più grandi di età, rimasero sbalorditi nell’udire quelle parole, ma il giovane invece, estratta la spada, rispose: «O re, accettiamo quello che ci offri» e con la spada tracciò circoscrivendola la zona illuminata dal sole sul pavimento e, dopo avere per tre volte fatto il gesto come per attingere i raggi del sole e metterseli nel proprio grembo, si allontanò insieme agli altri suoi fratelli. Uno dei compagni del re gli fece rilevare il significato grave dell’atto di Perdicca; onde egli mandò alcuni cavalieri per raggiungerli e ucciderli. Ma appena i fratelli ebbero passato il fiume (l’Erigone o l’Aliacmone) questo s’ingrossò tanto che i cavalieri non poterono passare, sicché ai fratelli fu possibile recarsi in un’altra parte della Macedonia vicino ai giardini di Mida, ai piedi del monte Bermio, donde avrebbero sottomesso la restante Macedonia[15].

Perdicca, quindi, riscosse le tre paghe e simbolicamente prese anche possesso di quello che il sole illumina, ossia la terra del regno. Questo episodio potrebbe spiegare la presenza dell’emblema del sole sulla larnax della Tomba II di Verghina. Oltretutto, Olimpiade era nota ai Greci come una devota baccante. Lo conferma Plutarco:

Durante i riti dionisiaci – fu detto – Olimpiade tirava fuori lunghi serpenti addomesticati per darli in mano ai fedeli; essi giacevano nascosti tra l’edera e nei panieri cerimoniali; alzavano la testa e si attorcigliavano attorno alle verghe e alle ghirlande delle donne, gettando il terrore tra gli uomini[16].

La narrazione mitica parla anche della spedizione e della conquista dell’Asia fino all’India di Dioniso. Da qui discende il confronto tra le rispettive imprese, del sovrano e del dio: quelle di Alessandro amplificate per stare alla pari con le gesta di Dioniso, quelle di Dioniso intese a fungere da modello e assicurare legittimazione alle prime. Questa sorta di emulazione contribuisce a favorire il processo di identificazione del sovrano con il dio. La missione civilizzatrice svolta da Dioniso in India si allaccia alla tradizione della diffusione del culto di Dioniso ed Eracle durante la campagna di Alessandro: gli eroi ‘culturali’ per eccellenza donano a una popolazione nomade e incolta il bagaglio della civiltà.

Altra famosissima iconografia del sovrano in sella a Bucefalo è il cosiddetto sarcofago di “Alessandro”, ritrovato a Sidone nel 1887 e oggi custodito al Museo Archeologico di Istanbul (Fig. 27 e 28).

Fig. 27 – Sarcofago di Alessandro. Marmo; Museo Archeologico di Istanbul (310 a.C. ca.).

Fig. 28 – Sarcofago di Alessandro. Marmo; Alessandro che attacca un Persiano, Museo Archeologico di Istanbul (310 a.C. ca.).

Sui lati il rilievo rappresenta scene di battaglia e scene di caccia al leone, al cervo e alla pantera. La battaglia ha un grande impatto visivo ed è densamente ricca di figure di soldati greco-macedoni e persiani impegnati nella lotta. Le pose sono complesse, dinamiche e preservate nei minimi dettagli con ogni figura chiaramente definita e identificabile dal suo vestito. I soldati persiani indossano pantaloni e cappelli di stoffa mentre i greco-macedoni sono riconoscibili dalle tuniche e dagli elmi. Tracce rimanenti di vernice indicano che il fregio era originariamente dai colori vivaci, e i fori e il posizionamento delle mani in alcune figure suggeriscono che il pezzo sarebbe stato anche abbellito con armi metalliche, che da allora sono andate perdute. Sul piano estetico la scena della battaglia è stata universalmente lodata, ma la sua interpretazione iconografica è ancora non molto chiara. La figura chiave del fregio che è stata oggetto della maggior attenzione degli studiosi è il soldato a cavallo all’estrema sinistra. Questo individuo è stato identificato in Alessandro Magno, sia per la sua importanza all’interno della scena poiché è situato più in alto nella battaglia, ma anche, cosa più convincente, per il tipo di elmo indossato. La figura indossa chiaramente un elmo a forma di testa di leone che, come ho già scritto precedentemente, si riferisce al richiamo di Alessandro a Eracle.

L’identità del proprietario del sarcofago rimane incerta. Alcuni studiosi attribuiscono il sarcofago a un nobile persiano, Mazeo, morto intorno al 328[17]. Mazeo aveva precedentemente combattuto contro Alessandro nella battaglia di Gaugamela (331 a.C.), ma dopo la sconfitta persiana accettò Alessandro come legittimo re e gli fu permesso di mantenere il controllo sulla città persiana di Babilonia come ricompensa. Una proposta alternativa, più ampiamente accettata, è che il sarcofago sia stato commissionato da Abdalonimo, uno degli ultimi re fenici di Sidone[18]. Dopo la battaglia di Isso, il nobile ricevette l’investitura di nuovo re di Sidone da Efestione per conto di Alessandro, promettendo in cambio la lealtà al conquistatore. Al di fuori della sua ascesa al trono, si sa poco di Abdalonimo, ma è probabile che sopravvisse ad Alessandro e fu attivo fino al 312, sebbene ci siano prove di monete prodotte a suo nome fino al 306. La datazione stilistica del sarcofago lo rende il proprietario più probabile poiché, come la maggior parte dei monumenti funerari, il sarcofago fu probabilmente commissionato e progettato durante la vita del proprietario. Il sarcofago è stato datato tra il 325 e il 310, cronologia troppo tarda per l’ipotesi di Mazeo.  A supporto di tale tesi, sul timpano è rappresentato l’omicidio di Perdicca che fu assassinato in Egitto nel 321. Abdalonimo viene raffigurato nel rilievo come soldato a piedi a destra nella scena di battaglia e nella scena di caccia mentre assale il leone.

Dubbi permangono sulla storicità della rappresentazione, se essa rappresenti la battaglia di Isso o Gaugamela, ma probabilmente si tratta una scena semi-mitizzata che allude alla vittoria militare. Alcune figure sono rese nude per implicare l’eroismo o l’atletismo. L’apparizione di figure nude in una scena di battaglia altrimenti realistica può supportare l’idea che lo spettatore debba vedere la scena all’interno di un contesto parzialmente mitico e non come una rappresentazione interamente storica.

Tra le scene di caccia reale del sarcofago, assume una certa importanza la caccia al leone, per secoli un importante passatempo reale nella corte persiana: i fregi del palazzo assiro di Ninive, oggi al British Museum, che raffigurano il Gran Re nel bel mezzo di una caccia, ne sottolineano l’associazione. Abbiamo già visto che l’iconografia della caccia reale al leone fu adottata anche nell’arte greca a partire forse da Filippo II o da Alessandro, pur dovendo escludere in quell’epoca, quasi certamente, la presenza di leoni in Macedonia. La scena di caccia a questa preda pone la figura di Abdalonimo al centro dell’azione e include in modo significativo Alessandro al suo fianco. Il re di Sidone probabilmente usa il suo monumento funebre per esaltare sé stesso e la sua ascensione regale, ricordando rispettosamente Alessandro per avergli permesso di assumere questo importante ruolo.

Il tema della battaglia contro i Persiani fu utilizzato nell’arte come simbolo della legittimità del potere di Alessandro. Il primo a commissionare un’opera con questo tema fu Cassandro, che la espose nel suo palazzo di Pella nel 317, dopo essere asceso al potere. Dalle informazioni pervenuteci da Plinio, questo quadro con l’epico scontro tra Alessandro e Dario fu commissionato a Filosseno di Eretria, pittore di scuola attica famoso per la resa realistica e dinamica delle azioni in movimento, e inventore di nuove tecniche pittoriche e prospettiche[19]. Una spettacolare opera che, secondo alcuni studiosi, s’ispira probabilmente al famoso dipinto di Filosseno, è il mosaico a tessere policrome in opus vermiculatum rinvenuto nella Casa del Fauno a Pompei nel 1831 (Fig. 29).

Fig. 29 – Scena di battaglia tra Alessandro Magno e Dario III, Casa del Fauno, esedra, Pompei. Fine del II – inizi del I sec. a.C., Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Il mosaico si data intorno al 100 a.C. ed era il focus, l’elemento più importante della dimora pompeiana, che di certo appartenne a uno dei più influenti personaggi locali della città campana.

L’opera ricopriva per intero il pavimento dell’ampia esedra al centro dell’area dell’abitazione destinata all’otium. Oggi il mosaico si trova al Museo Archeologico Nazionale di Napoli ed è ritenuto il più famoso del mondo antico e una delle immagini più celebri dell’arte di tutti i tempi. La bottega di mosaicisti, probabilmente alessandrini, ha utilizzato più di un milione e seicentomila tessere, replicando la composizione del primo ellenismo con una grandissima prova di abilità e pazienza. L’unico elemento paesaggistico è un tronco d’albero spoglio, che probabilmente identificava la battaglia con quella di Isso (333), ricordata da fonti arabe come “la battaglia dell’albero secco”. A sinistra avanza la compatta cavalleria macedone, comandata da Alessandro, e a destra quella persiana che si disgrega attorno al carro di Dario. La scena coglie il momento culmine della battaglia, dove Alessandro con la sua lancia cerca di colpire il re persiano, salvato, però, dal coraggio di un cavaliere persiano che si immortala proteggendolo e permettendogli la fuga. L’immagine racchiude una forte tensione dinamica: Alessandro e i Macedoni sono rappresentanti come una forte onda che impatta da sinistra verso destra, creando scompiglio e panico nella compagine persiana. Le espressioni dei personaggi, i gesti drammatici, le lance, la posizione e i movimenti dei cavalieri e dei cavalli ricreano fedelmente il caos della battaglia, con un uso prospettico di eccezionale livello per quell’epoca.

Nell’opera emerge la ferocia, il carisma e il genio militare di Alessandro che anche in questo caso, come nella statuetta equestre di Ercolano, è raffigurato senza elmo. Nel ritratto ha i capelli rossicci e ondulati gonfiati dal vento, ha uno sguardo indemoniato con occhi grandi e scuri un po’ inclinati verso il basso, il naso forte e leggermente adunco e la bocca piccola e contratta nella foga dell’azione e per lo sforzo. Sono gli stessi tratti che riconosciamo nell’affresco di Boscoreale in cui si profetizza il suo avvento sul trono dell’Asia. Le fattezze del sovrano in quest’immagine discordano con ritratti di Leocare e Lisippo o con il mosaico di Pella in cui è raffigurato nudo e giovane mentre caccia un leone. È difficile anche stabilire una somiglianza con il padre.

In quest’opera si vuole sottolineare la grandezza e il coraggio in battaglia del Macedone, e allo stesso tempo ricreare la disperazione e la paura dei Persiani, in particolar modo di Dario, creando un eccezionale effetto di pathos.  

Il mosaico è stato realizzato con la tecnica del tetracromatismo, ovvero l’utilizzo esclusivo di quattro colori: bianco, giallo, rosso e nero-blu, a imitazione della tradizione della scuola classica dei pittori greci al tempo di Alessandro.

Tuttavia, permangono dubbi sul primo autore e inventore di questa scena, modello dello schema della battaglia tra Alessandro e Dario. Il dibattito è dovuto alla presenza di vasi apuli con lo stesso riferimento iconografico, datati a un periodo leggermente antecedente al 317, anno dell’opera di Filosseno[20].

Paolo Moreno ipotizza che l’archetipo sia stato realizzato da Apelle:

La reiterata attribuzione dell’archetipo a Filosseno di Eretria è stata abbandonata da quando in Macedonia si è constatato il policromo, più recente stile del pittore alla corte di Cassandro, grazie all’affresco nella tomba della Persefone a Ege, e alla tempera sul marmo dei letti funebri da Potidea al Museo di Salonicco: la maniera facile e veloce cui accenna Plinio (XXXV 110), incompatibile con la classica determinazione dei contorni e di ogni dettaglio nell’evocazione bellica limitata al tetracromatismo. La sistematica convergenza degli indizi ricavati dal mosaico con quanto sappiamo di Apelle, porta a registrare il capolavoro tra quelle opere commissionate da Alessandro che Plinio (XXXV 93) considerava «superfluo enumerare» per la loro quantità e l’universale fama. Rinviando il lettore alle precedenti edizioni degli accurati percorsi iconografici, lungo i quali troverà illustrazione di non poche monete, conviene sottolineare l’apporto numismatico alla spiegazione di un punto focale della scena, il realismo del volto di Alessandro, e su di un dettaglio apparentemente secondario, l’elmo del condottiero rotolato al suolo, che si rivela partecipe di una complessa tradizione. Fondamentale per la cronologia alta dell’invenzione è il fatto che Alessandro non sia idealizzato. I tratti non proporzionati e la tensione spasmodica ne rendono spiacevole l’aspetto. L’autenticità fisionomica ci porta alle osservazioni degli scrittori antichi a proposito del gruppo bronzeo di Lisippo per i venticinque hetairoi caduti al Granico, al significato documentario che avevano le dediche nate sul campo di battaglia. I segni forti del viso e le guance piene (l’intensità dello sguardo è perduta col rifacimento dell’occhio in età romana) sono comuni all’Alessandro Eracle sul diritto dei tetradrammi esaminati tra le precedenti coniazioni del regno, e ancor più nel conio qui esemplificato della zecca di Damasco[21].

Della stessa opinione è anche Andrew Stewart, che non attribuisce l’opera a Filosseno perché alla fine del IV secolo a.C. la tecnica tetracromatismo era ormai obsoleta[22].

Dal 2022 il mosaico della casa del Fauno è oggetto di un grande progetto di restauro, che si concentra sul garantire l’integrità del pezzo, riparando le microfratture e fissando le tessere che cominciavano a staccarsi. Sono state inoltre sistemate le depressioni e le asperità della superficie e sono state pulite alcune macchie. L’opera complessivamente pesa circa sette tonnellate e, oltretutto, non fu progettata per stare in piedi. Uno dei dubbi degli specialisti che stanno restaurando il mosaico è proprio quello di rimetterlo in mostra così com’è o di riportarlo in posizione orizzontale, anche se per una migliore visibilità si potrebbe optare per una soluzione intermedia ed esporlo su un piano leggermente inclinato.

[1] Plut. Alex. 1.3.

[2] Paolo Moreno, 2005.

[3] Andronikos, 1980.

[4] Paolo Moreno, 2009.

[5] Coarelli, Lo Sardo, 2023.

[6] Plin. N. H. 35.50.

[7] Ensoli, 2017.

[8] Moreno, 1995.

[9] Smith, 1988.

[10] Fredricksmeyer, 1997.

[11] Plin. N. H. 7.191.

[12] Diod.  4.4.4.

[13] Fredricksmeyer, 1997.

[14] Fox, 1991.

[15] Hdt. 3.26.

[16] Plut. Alex. 2.6.

[17] Heckel, 2006.

[18] Stewart, 1993.

[19] Plin. N.H.  35.110.

[20] Stewart, 1993.

[21] Paolo Moreno, 2012.

[22] A. Stewart, 2003.

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